SECESSIONE
Come il Federalismo, la secessione deriva dall’aspirazione all’
autogoverno, che può essere mortificata, per molte ragioni, sia in un sistema unitario che in uno Stato
(pseudo)federale. Le cause più frequenti che stimolano il ricorso ad essa sono: eccesso di accentramento del potere, tirannide politica, obsolescenza di uno Stato,
subordinazione - politica, economica, etnonazionale - di alcuni gruppi ad altri, omogeneizzazione forzata e soppressione (con la violenza o meno) del pluralismo etnico,
geografico e territoriale, sfruttamento economico, distruzione di ricchezze e redistribuzione discriminatoria delle risorse, allocate politicamente fra diverse regioni;
squilibrio nella provenienza territoriale della pubblica amministrazione (spesso insediata per tormentare popolazioni asservite e distruggerne le proprietà), tassazione
smodata e squilibrata fra regioni, finalizzata a mantenere alcuni gruppi che non lavorano a discapito di altri, fallimento di riforme promesse e volte a garantire
l’autogoverno, umiliazione dell’identità (che non è solo etnolinguistica, ma anche socio-economica, di stili di vita, di percezioni politiche, ecc.) e persecuzione
di gruppi e minoranze e così via.
Il ricorso alla secessione equivale al ristabilimento del diritto naturale (“pre-politico”: inalienabile, indisponibile, come quello di “resistenza” al potere tirannico,
diritto che
è a monte di ogni ordinamento) a decidere del proprio destino (proprietà di sé stessi) e a far valere il proprio consenso a istituzioni legittime. Nonostante
quelle cause più diffuse, tuttavia, essa è sempre giustificata. Negarla infatti equivale a sostenere che le persone sono schiave e non hanno il diritto all’autogoverno
(all’interno di una struttura politica esistente o al di fuori di essa) e di vivere nell’assetto politico che preferiscono, rifiutandosi di far parte di organizzazioni
politiche delle quali non condividono i principi e le finalità. La legittimità della secessione non differisce infatti da quella del governo.
Anche se innumerevoli entità politiche esistenti sono derivate - in un remoto passato e in quello più recente - da processi di secessione, l’argomento rimane in un cono
d’ombra e nel silenzio, per quanto venga oggi esaminato in alcuni ambiti di studio. La forma statale predominante, quella dello Stato nazionale, si regge infatti sul
mito dell’unità politica (inventato dagli ideologi dello Stato moderno) e su quello della sovranità, per sua natura “unitaria e indivisibile”, rappresentate dalla
“nazione”, spesso concepita come un “corpo vivente” “esistente in natura”, che ha inchiodato un “popolo” al territorio statale dotato di “confini” (“naturali”)
sacralizzati e di “membra” che non possono essere separate se non con un “attentato” alla sua stessa sopravvivenza. Lo Stato nazionale inoltre, basandosi sulla mistica
del potere e sulla mitologia dell’“unità-potenza” (e del “numero-potenza” - teorizzato nel modo più sincero dal fascismo), vede la secessione come una “perdita di
potenza”. La realtà è che il problema territoriale è tipico solo dello Stato moderno (e della sua sovranità “indivisibile” sul territorio) e la secessione come
possibilità, in nome dell’
autogoverno, ne mina la legittimità nei fondamenti. Tutti gli Stati pretendono la fedeltà esclusiva e l’obbedienza dei propri sudditi e una
separazione di una parte del territorio viene perciò equiparata al “tradimento” (con la stessa identica logica di una cosca mafiosa). Si spiega pertanto la loro
reazione (anche violenta, se i detentori del potere si sentono sicuri) a tentativi di separazione, spesso supportata dalla comunità internazionale degli Stati, che si
sente minacciata da rivendicazioni che, “destabilizzando le relazioni internazionali”, mettono in discussione i confini e l’autorità (anche se non da tutti gli Stati,
che possono singolarmente vederne un vantaggio) e l’esercizio del potere da parte delle classi politiche, minacciate da fenomeni di imitazione a cascata e quindi anche
nel proprio Stato.
Pur se con la fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti si sono aperte nuove prospettive per la creazione di entità politiche indipendenti - persino
con separazioni “di fatto” che sopravvivono senza riconoscimento internazionale (mettendo a dura prova le un tempo rigide limitazioni al “diritto di autodeterminazione”
e il diritto internazionale) - le reazioni degli Stati al cambiamento dei loro confini e giurisdizioni, visti come una sfida all’“eternità”/”immutabilità” della
sovranità, rimangono rabbiose e spesso violente, godendo della solidarietà degli altri Stati (ossia delle altre classi politiche) in tema di “diritto alla protezione
della propria integrità territoriale”. Tali reazioni derivano dalla totale indifferenza rispetto alle legittime rivendicazioni di autogoverno e rispetto al fatto che
quelle isteriche risposte violano i presupposti stessi della democrazia, il diritto a decidere, generando gravi contraddizioni (che vengono nascoste sotto il tappeto)
e provocando il peggioramento della situazione.
Quello che non si vuole ammettere è che tutte le “nazioni” moderne sono un complemento ornamentale degli Stati che hanno imposto la coincidenza fra popolo, governo,
sovranità e territorio e possono pertanto finire con l’entrata in crisi dell’esclusività del rapporto statuale. Del resto, quasi tutti i confini, accidenti storici
casuali o derivanti dal diritto di conquista (della forza), sono cambiati più o meno nel tempo, rendendo ormai assurde le tronfie proclamazioni di sacralità
dell’“integrità territoriale”. Inoltre, le questioni del consenso e della libera unione, soppressi a lungo con annessioni indifferenti alla volontà delle popolazioni
e espulsi dalla porta stanno rientrando dalla finestra.
La secessione è uno strumento radicale e estremo, ma sempre legittimo e efficace per conseguire l’autogoverno (
self-rule). Le conseguenze positive derivanti dalla
riduzione delle dimensioni dei macro-Stati sono poi rilevabili empiricamente: dalla riduzione dell’ampiezza dei poteri pubblici e della loro invadenza, all’aumento
esponenziale del reddito pro-capite, all’apertura obbligata al mercato e alla divisione mondiali del lavoro, ai costi maggiori dell’adozione di autarchia e protezionismo,
alla motivazione a supportare la nuova indipendenza - liberata da relazioni egemoniche di sfruttamento e da un’integrazione forzata - alla responsabilizzazione, al
controllo di chi comanda, alla drastica riduzione del parassitismo politico-burocratico, alla più rapida innovazione tecnologica, all’aumento della concorrenza con
altre entità politiche sul piano istituzionale, economico, fiscale, nei servizi (tassazione più bassa e servizi migliori) e alla probabile adozione di politiche più
liberali, a causa dell’accresciuta possibilità per i cittadini più produttivi di “votare con i piedi” (spostarsi in altre entità analoghe, più vicine).
La secessione non è affatto un anacronismo, in quanto risponde al bisogno di
autogoverno e apre vaste prospettive di rinascita per le comunità politiche, se è
sufficientemente diffusa. Certo, in un mondo di Stati nazionali capace di esercitare irresistibili pressioni, essa corre il rischio di dar vita a “piccoli Stati” e
a nuove unità territoriali che non riescono a superare - anche se su scala più ridotta - le contraddizioni dello Stato moderno (unità e omogeneità, con conseguenti
problemi delle minoranze, alle quali può venir negato l’autogoverno; pretese alla “lingua di Stato” dell’“etnia titolare”, uniformità imposta, centralizzazione,
violazione di diritti civili e politici, costruzione di nuovi confini, ecc.). Tali prospettive, tuttavia, che rendono meno interessanti e meno aperte al futuro
la secessione rispetto a soluzioni federali (con entità federate non etnicamente omogenee), non possono comunque interferire con il diritto a secedere e a godere
di tutti i vantaggi che le ridotte dimensioni comportano: primo fra tutti la possibilità di minacciare di trasferirsi a poca distanza, sottoponendo la nuova
entità politica a perdite fiscali e di risorse (concorrenza istituzionale), riducendo il potere tipico di uno Stato, il peso di molte sue caratteristiche e
costringendo chi governa a servire interessi e bisogni dei governati. Forme di neonazionalismo delle nuove entità indipendenti pongono poi problemi di coerenza
per i loro possibili sostenitori: il nazionalismo infatti è ostile alla secessione e questa non può essere sostenuta solo quando riguarda sé stessi, negando lo
stesso diritto ad altri.
La secessione può inoltre essere inevitabile (nel caso di Stati autoritari e irriformabili, di istituzioni corrotte, ingiuste e oppressive o di federazioni che violano
il contratto sul quale si basano) e costituire la premessa per costruire nuove federazioni, consensuali e contrattuali - rispettose del diritto illimitato e permanente
di secedere - che non tengano nemmeno conto delle precedenti caratteristiche territoriali e demografiche dello Stato nazionale dal quale le entità si distaccano.
Al contrario, esse possono formarsi come federazioni con popolazioni nuove, estranee allo Stato nazionale preesistente e persino senza il rispetto della rigida
regola statuale moderna della “continuità territoriale”, che è stata un’eccezione storica. Del resto l’Alaska, le Hawaii, i territori oltremare nella UE, le exclave
ancora esistenti, dimostrano quanto la mancanza di continuità territoriale (caratteristica predominante dell’Europa storica fino alla fine del Settecento) già esista
e sia del tutto possibile ampliarla.
Alessandro Vitale
Nella stessa serie di articoli: