AUTONOMIA, FEDERALISMO E SECESSIONE
Alessandro Vitale

PARTE 2 DI 4, AUTONOMIA
Il concetto di autonomia, come quello di decentramento, può avere un significato molto ingannevole, e soprattutto non va confuso con quello di autogoverno, né tantomeno con quello di federalismo, di cui per molti versi è anzi la negazione.
«Nel Federalismo si ha una pluralità di “gouvernants” (cioè di fonti di potere), mentre nel decentramento continua a esserci un’unica fonte di potere, situata a livello nazionale».

Léon Duguit (1911).
AUTONOMIA

Molto spesso in politica le parole ingannano, perfino quando vengono esaminate nella loro etimologia. È il caso da manuale dell’autonomia, oggi erroneamente considerata espressione di “autogoverno” (self-rule). Se autòs e nomos (αὐτος- “proprio” e νόμος, “legge”: da cui αὐτονομία) nella Grecia classica significavano “darsi e/o riconoscere leggi proprie” - e quindi, per estensione, “autogovernarsi” - la scienza amministrativa francese e la giuspubblicistica tedesca dell’Ottocento sono riuscite a rovesciare il significato originario di “autonomia” nel suo opposto: ossia quello di “sottostare a leggi emanate da un potere centralizzato”, amministrandole. Questo stravolgimento è avvenuto, dopo la Rivoluzione Francese, parallelamente alla soppressione dei poteri intermedi fra individuo e Stato e con la loro sostituzione mediante un’amministrazione statale locale, dipendente dal potere concentrato, in forma gerarchico-piramidale, derivante dal concetto moderno di “sovranità unitaria e indivisibile”. L’autogoverno locale e municipale, soppresso dagli accorpamenti territoriali, è stato ridotto alla gestione di compiti amministrativi per conto dello Stato, entro unità territoriali standardizzate (nel caso estremo ridotte a numeri) e sorvegliate dal potere centralizzato. Il principio di direzione gerarchica ha soppresso così l’autogoverno, sostituito dal “decentramento”, funzionale al più snello funzionamento del sistema politico centralizzato, ovunque oberato di compiti e costretto a far fronte a “aspettative crescenti”. Per questo “autonomia” e decentramento, nel regionalismo, non sono sinonimi di “autogoverno”. L’autonomia infatti non riguarda l’ambito “governamentale”, ma solo quello amministrativo.

Il punto più estremo della trasformazione del concetto classico di autonomia in quello moderno è stato raggiunto dal giurista dogmatico tedesco Paul Laband (1838-1918), che è riuscito a trasformare il significato antico in un sinonimo di “amministrazione propria” (Selbstverwaltung), privandolo in tal modo proprio del suo legame con l’autogoverno (Selbstgesetzgebung, self-rule) - contrariamente a quanto riteneva Hans Kelsen - appiattendo l’autonomia sul livello amministrativo, definito “autonomo”, ma senza intaccare l’unità del comando statale centralizzato.

L’autonomia si realizza così sempre nella concessione dall’alto di competenze in materie marginali e limitate e di scarsi o nulli strumenti finanziari per gestirle in ristrette circoscrizioni territoriali, soggette a un rigido sistema di controlli e di supervisioni eserciate dal potere centralizzato e al ricatto sulle risorse - concesse dall’alto - e persino sulla possibilità di godere delle proprie. Inoltre, scimmiottando l’autogoverno senza realizzarlo, ma dando l’illusione del self-rule, a differenza della stabilità del potere del quale godono le entità federate nei sistemi federali, l’autonomia è sempre instabile, revocabile in qualsiasi momento, “re-inglobabile” a piacere nell’ambito di un permanente rapporto gerarchico e di dipendenza centro-periferia (incompatibile, quest’ultimo, proprio con la logica del principio federale e dell’autogoverno, che hanno bisogno di dualismo), che è la premessa essenziale dell’unità politica e del centro di potere e comando, connaturata allo Stato moderno, refrattario alla divisione della sovranità. Autonomia, decentramento e regionalismo non sono in contrasto con la centralizzazione dell’attività di governo in un unico punto geografico (in genere le città erette a capitali, vere eredi del palazzo del principe). Infatti non danno luogo a fonti diverse di autorità e di potere, ma solo a un’organizzazione amministrativa variamente delegata e subordinata allo Stato sovrano, che continua a detenere l’unità e la centralità del comando e che elargisce il decentramento a suo piacimento. Ecco perché usare il termine “governo centrale” quando si parla di uno Stato unitario centralizzato è errato: non ci sono infatti un governo centrale che si giustapponga a “governi” periferici, ma solo un governo in possesso di una sovranità unica e indivisa, che delega l’amministrazione (e le competenze) non a altri “governi” locali ma solo a organi amministrativi subordinati e dipendenti da un potere centralizzato che pretende il diritto di stabilire e di variare tutte le prerogative e competenze (è il principio Kompetenz Kompetenz - che pone lo Stato centralizzato come autorità suprema rispetto a tutte le altri, che può modificare le competenze di tutti gli altri soggetti senza che le sue possano essere modificate da nessun’altra autorità - vigente anche nel falso sistema “federale” tedesco). La concessione dell’autonomia a gruppi periferici non mina affatto l’integrità del centro politico di un sistema unitario, lasciandone intatta la struttura politica, che può “decentrarsi” solo conservando tutte le sue prerogative. Le regioni periferiche rimangono infatti alla mercé dei processi decisionali centralizzati e gerarchizzati, anche se gli accordi di autonomia sono costituzionalizzati. In altri termini, il pluralismo è solo apparente: è una concessione di chi governa, soggetta però anche ai suoi umori.

L’unica parziale eccezione è la devolution, che comporta una delega quasi permanente di alcuni poteri ai governi locali (ad es. Scozia), che potranno decidere sull’eventuale loro restituzione. Anche con la devolution, tuttavia, il sistema politico è dominato da un’unica fonte di potere. Essa non conferisce ai soggetti locali l’intero complesso delle attività di governo, rimanendo così un assetto prevalentemente amministrativo interno.

Il problema più grave dei sistemi regionalistici - di autonomia e decentrati - è che non forniscono un argine efficace alle imponenti spinte centralizzanti e alle pretese del potere centralizzato, storicamente talmente forti nello Stato moderno da aver contaminato anche i sistemi federali esistenti, pur se molto più attrezzati per difendersi dalla centralizzazione del potere. Quello dell’“autonomia” è infatti un pluralismo apparente e del tutto indifeso, come hanno dimostrato i casi dell’erosione del pur consistente self-government inglese con l’avvento del Parlamento, del Kosovo sotto la Serbia, della Catalogna, le continue pretese di autogiustificazione e le minacce di soppressione rivolte al Trentino-Südtirol, ecc. Inoltre, i sistemi decentrati e autonomistici frenano lo sviluppo di classi politiche locali, che rimangono agenti del governo posti a capo di organi decentrati dell’amministrazione centralizzata, a causa dell’attrazione che il governo centralizzato esercita sul personale politico regionale, trasformato in servile aiutante del potere, che aspira a esercitarlo prima o poi nelle capitali. Infine, con l’autonomia non riescono a formarsi centri di resistenza alle forze che spingono incessantemente verso l’accentramento politico.

Le classi politiche - spesso consapevoli della crisi del governo centralizzato ma che sperano che questa sia solo un fenomeno transitorio - auspicano il decentramento per mitigare proprio quella crisi, salvando al contempo sé stesse e la sovranità, che per sua natura esige un’illimitata e illimitabile concentrazione del potere sul territorio. L’“autonomia”, mito ottocentesco sul quale si fonda l’ideologia dello “Stato regionale”, è un comodo strumento di autodifesa per chi detiene il potere. Esso ottiene due risultati: 1) scaricare il peso eccessivo sul potere della capitale e 2) far credere a un superamento del centralismo mediante un potere spazialmente diviso, che in realtà non si produce, dato che, come aveva spiegato il giurista Léon Duguit (1859-1828), si continua ad avere una sola fonte di potere. Si rimane cioè in una concezione monistica dell’ordinamento politico: quello dipendente dalla sovranità (indivisibile e inalienabile). La struttura rimane gerarchico-piramidale: la si intravvede anche nell’uso del concetto di “sussidiarietà”, che nella sua applicazione politica (a differenza della sua nobile formulazione in ambito sociale) necessita di “livelli di amministrazione” superiori e inferiori, di un’ultimate authority (quella sovrana) che si riserva la facoltà “di sussidiarsi” (cioè di attribuire le competenze, appunto), rispetto a un livello “inferiore”.

Il regionalismo, l’autonomia, il decentramento rimangono così un metodo di razionalizzazione e snellimento dell’amministrazione dello Stato unitario. Non è un caso se questi concetti siano stati poi sviluppati in Francia nel loro significato moderno e siano stati fatti propri dal nazionalismo realista di Charles Maurras e da movimenti fanatici dell’ideologia dello Stato nazionale unitario sovrano. Il decentramento è stato sostenuto dai conservatori dello Stato unitario, di tutti i colori e di tutte le sfumature ideologiche. La régionalisation, per quante competenze preveda di delegare, rimane sempre figlia delle pretese regolatrici e omogeneizzatrici dello Stato nazionale unitario, di una logica pianificatrice e verticistica e permette di conservare il controllo centralizzato del potere. Con il decentramento regionale quest’ultimo rinuncia ad alcune funzioni e ruoli minori, ma non alla sovranità unitaria e al controllo dell’unica fonte di potere.

Non esiste affatto, pertanto, come vorrebbe certa dottrina, un continuum fra autonomia e federalismo e non è vero che l’autonomia e il decentramento, come si disse erroneamente alla Costituente, sono «Una via di mezzo fra lo Stato unitario e quello federale». Sono invece strumenti per “oliare” gli ingranaggi del centralismo statale e sono l’esatto opposto del federalismo, che non è affatto “solo una forma di uno Stato unitario decentralizzato” (come voleva Hans Kelsen). Da una parte vi sono gli Stati unitari (centralizzati o decentrati: “monisti”) e dall’altra, all’opposto, ordinamenti “compositi”, pluralistici, federali, nei quali le entità federate possiedono una sfera originaria innata (come i diritti naturali inalienabili della persona) di indipendenza politica, giuridica e “governamentale”, che non sopporta una relazione gerarchica fra superiore e subordinato.

Il decentramento e l’autonomia si basano su un equivoco, dato che pur proclamando di spogliare lo Stato unitario e centralizzato dei suoi poteri amministrativi, pretendono di conservargli le sue prerogative politiche: una cosa assurda, perché l’accentramento amministrativo è la maggiore giustificazione teorica e la più solida base pratica dell’accentramento politico (Camillo Berneri). Infatti l’autonomia non riesce a mettere in discussione in radice il livellamento omogeneizzante derivante dalla legislazione uniforme e dall’uniformità amministrativa.

Confondere “autonomia” da una parte, con “federalismo” e autogoverno dall’altra, è inoltre un errore gravido di serie conseguenze. Rimanendo infatti intatta la struttura accentrata del potere (legislazione unica, parlamento unico, finanza unica, regolamentazione “quadro” unica, obbligo di mantenersi entro i limiti fissati dal potere sovrano, ecc.) - come scriveva il federalista repubblicano Attardo Magrini nel 1946 – resterà aperta la strada agli stessi risultati nefasti dello Stato unitario centralizzato. Inoltre, l’autonomia provoca il ri-accentramento e la sua sospensione, in quanto altera la coerenza dei sistemi politici unitari come un sassolino negli ingranaggi, provocando disfunzioni a catena. Il regionalismo (spacciato per “federalismo”) verrà così preso a facile pretesto per continue azioni ri-centralizzanti. Il decentramento unitario è una vera e propria frode, finalizzata a neutralizzare l’autogoverno.

Alessandro Vitale



Nella stessa serie di articoli:

Torna a inizio