Gianfranco Miglio è vivo e sempre più attuale. Coloro che pensano che andandosene vent’anni fa, il 10 agosto 2001, portando con sé tutta la sua eredità intellettuale o
che addirittura auspicavano che con la fine della sua esperienza terrena scomparissero anche la sua opera, il suo pensiero sulla dura realtà della politica, il suo lavoro
scientifico, la portata delle sue riflessioni neofederali e delle sue proposte di radicale riforma costituzionale, sono fuori strada. Miglio infatti non se n’è mai andato
ed è sempre più attuale nella realtà che ci circonda.
Nonostante tutto quello che è accaduto in questi vent’anni, Miglio è vivo. Nonostante le false e nauseanti ricostruzioni massmediatiche della sua figura, le risibili
calunnie ancora circolanti, diffuse ad arte dal regime italiano e dai suoi accoliti e beneficiati, Miglio è più vivo che mai. Nonostante l’uso infamante e a sproposito
del suo nome da parte di qualche politicante, Miglio è vivo e sempre più attuale. Nonostante il silenzio nei “luoghi che contano” e negli ambienti accademici, dove ancora
vige non solo l’imbarazzo a citarlo, ma persino il ricattatorio e tacito divieto a studenti, dottorandi, ricercatori (e professori non ancora giunti al baronato),
di occuparsi delle sue idee e scoperte - pena pesanti ritorsioni da parte di coloro che dettano l’agenda degli studi - e nonostante la cancellazione dei suoi scritti
dalle case editrici, Miglio è sempre più attuale. Nonostante l’autocontraddittorio conglomerato di anatemi e di sterili “omaggi labiali” alla sua opera e alla sua
metodologia - purchè non riguardino gli ultimi dieci anni di straordinaria riflessione teorica neofederale, dei quali per altro ben poco si sa, ma frutto maturo, questa,
proprio della sua elaborazione teorica e concettuale precedente e di quella stessa metodologia - un conglomerato dominante anche nell’Università nella quale ha studiato
e lavorato per più di mezzo secolo - Gianfranco Miglio è vivo. Nonostante il tentativo degli accademici – come aveva scritto in un commosso ricordo del politologo comasco,
a dieci anni dalla morte, Gilberto Oneto – di «Far passare Miglio per quello che non è mai stato: uno di loro, uno stinto e asettico studioso, un ipocrita», Miglio è
vivo perché è stato l’esatto opposto. Nonostante il silenzio ufficiale calato sulla sterminata serie di sue profonde intuizioni, feconde e gravide di possibili, innumerevoli
sviluppi scientifici, la frettolosa archiviazione dei suoi apporti alla Scienza della Politica da parte di didatti ormai dediti nelle Università a irrilevanti micro-problemi,
a interminabili vaniloqui sulla democrazia (mentre nella realtà viviamo in regimi sempre più tirannici), sulle alchimie elettorali, sugli aspetti di facciata dei partiti
politici, sulle loro conformazioni parlamentari e ad altri aspetti di superficie (indagati da una disciplina, la “Scienza Politica” diventata fonte di legittimazione di un
sistema politico e che Miglio riteneva andasse ormai «Rivoltata come un calzino»), lo scianziato della politica lombardo e la sua opera sono più vivi che mai. Il suo lavoro
è attuale perché era rivolto ai tempi lunghi, a cercare di sapere cosa sarebbe accaduto fra cinquant’anni, non l’indomani. Cosa che certo non si può dire - come giustamente
ha notato Carlo Lottieri in un suo articolo scritto su
Il Giornale in occasione di questo Ventennale dalla morte - dell’ormai stantìa e inservibile politologia degli anni
Settanta-Ottanta (ma anche di molta di quella recente), precedente alla fine del periodo del sistema internazionale bipolare.
Innanzitutto andrebbe ricordato che Miglio era stato definito, non certo a vanvera e con buona pace dei suoi detrattori, da uno dei più grandi giuristi e
political
scientist di tutti i tempi - Carl Schmitt - in una conversazione con Ernst Jünger: «Il maggiore teorico delle istituzioni e l’uomo più colto d’Europa». Miglio dominava infatti e
continuava a svilupparla, una compiuta teoria della politica, che gli permetteva di penetrare nei più profondi meandri e segreti (gli “arcana imperii”) della gestione del
potere e nei temi più scomodi per chi quel potere detiene. A questo si aggiungevano una sterminata competenza storica in materia di istituzioni, dottrine politiche,
Costituzioni e una straordinaria capacità previsionale. Dal profondo studio delle ragioni dell’obbedienza e della legittimità politiche (l’obbligazione politica), a
quello delle fonti e delle dinamiche del parassitismo e della rendita politica (il vivere alle spalle degli altri, grazie alla coercizione: un tema fondamentale dei primordi
della Sociologia e della Scienza della Politica, poi rimosso dalle accademie statalizzate), allo studio della lotta per il potere e della tendenza di quest’ultimo a
espandersi indefinitamente, laddove non incontri ostacoli, l’opera di Gianfranco Miglio si è sviluppata sempre ben al di là della superficie dei fenomeni, giungendo a
sviluppi teorici che tanto possono ancora e più che mai aiutare a comprendere la realtà della politica e del dominio di alcuni esseri umani organizzati su sterminate masse
di altri, disorganizzati. Dalla storicizzazione dello Stato moderno e del concetto teologico secolarizzato di “sovranità”, egli giunge a demistificare anche innumerevoli
dogmi legati alla costruzione ideologica dello Stato moderno, che continuiamo a dare per scontati.
La sua indagine sul contrasto irriducibile fra “obbligazione politica” (oggetto centrale della sua ricerca pluridecennale) e obbligazione “contratto-scambio”, concepita
sviluppando in profondità la lezione del suo Maestro di fama mondiale, Alessandro Passerin d’Éntreves e distaccandosi in questo dalla teoria di Carl Schmitt (ma non
certo dal realismo politico di quest’ultimo, che per altro era giunto a analoghe scoperte sul declino dello Stato moderno e sulla continua tendenza del potere politico
a dilagare), sondava profondità incommensurabili. Solo partendo da questa (e smentendo coloro che vorrebbero la sua elaborazione di una teoria neofederale come
“non scientifica”, estemporanea e avulsa dal suo lungo percorso teorico precedente), è del resto possibile comprendere la sua teoria neofederale, le sue fondamenta
(l’emergere di contratti flessibili, che mettono in discussione ferrei patti politici senza limitazioni temporali e pretese all’assolutezza e illimitatezza della sovranità
indivisibile) e le sue ragioni nel mondo attuale. Il lungo ritorno al contratto (che ha dominato una lunga fase pre-statuale moderna) corrisponde alla crisi dei dogmi
parareligiosi dell’unità, della sovranità indivisibile e eterna, che hanno dominato per secoli e che vengono ancora dati per scontati. Di fronte all’esplodere di bisogni
sempre più diversificati e complessi, che premono per l’emergere di economie dinamiche orientate al mercato, alla concorrenza e all’innovazione (che avrebbero bisogno
della dispersione concorrenziale del potere), ma ingestibili da parte di strutture formalizzate e immobili come gli Stati sovrani unitari centralizzati, poiché lo spazio
politico e quello economico tendono a divaricarsi, soprattutto questa parte della sua teoria acquista oggi sempre più attualità e interesse. Perché le soluzioni federali,
anche quando non ce ne rendiamo conto, possono risolvere i gravi problemi che crea il declino, lento ma inesorabile, delle sempre più elefantiache strutture macro-statuali
unitarie e accentrate.
Miglio è vivo proprio perché il suo pensiero vive nel presente, essendo stato capace di anticipare i fatti, le dinamiche della politica - conoscendone a fondo le sue
regolarità – in modo incomparabile rispetto ai suoi colleghi. È come se, mediante i pensieri e le analisi che ci ha tramandato, continuasse a osservare, a fotografare
la realtà politica nella quale viviamo, a illuminarne i segreti meccanismi, denunciandone i difetti, le patologie, smascherandone le finzioni e indicando rimedi che,
se non adottati, non possono frenare i gravi processi degenerativi che ci attanagliano: proprio quei fenomeni che puntualmente e come aveva previsto hanno portato
al peggioramento dei problemi con i quali, ancor più oggi che non alla fine degli anni Novanta, abbiamo a che fare.
A livello mondiale lo Stato unitario centralizzato, erede della sovranità moderna, provoca infatti problemi crescenti e sempre più catastrofici: dai costi altissimi della
sua azione e dei suoi inefficaci interventi, agli sprechi di risorse, alla corruzione, agli squilibri territoriali nella redistribuzione arbitraria delle ricchezze
estratte con la tassazione, sempre più esorbitante. È una struttura ormai incapace di rispondere ai bisogni in continua crescita e differenziazione, così come di frenare
l’inarrestabile e esponenziale aumento della spesa pubblica, ricavandola dall’indebitamento. Si tratta di una struttura elefantiaca che crea ormai molti più problemi di
quanto non ne risolva. Per non parlare dell’adozione di strumenti autodifensivi sempre più drastici e drammatici, ai limiti della tirannide armata, da parte delle classi
politiche che cercano di difendere queste strutture ingessate e sottoposte a crescenti scossoni economico-sociali e politici. Del caso italiano invece Miglio aveva compreso
e anticipato l’attuale fase di acuta e irreversibile degenerazione della “Prima Repubblica” (mai trasformatasi, come possiamo constatare oggi, in “Seconda”, nonostante
alcuni ritocchi di facciata che l’hanno solo ulteriormente sgangherata), il declino di uno Stato unitario centralizzato - risalente nel suo impianto ideologico alla fine
del Settecento, mentre le esigenze economiche e di sviluppo, dovute al rapido cambiamento dei fattori economico-sociali, galoppano al ritmo del XXI secolo: uno Stato
territoriale sempre più irriformabile, oppressivo, che (come diceva negli ultimi anni) sarebbe diventato di tipo “afro-balcanico”, basato su un parassitismo sistematico
e dilagante, avido di risorse estorte senza pietà da produttori sempre più disperati, fondato su una burocrazia ottusa e invadente e su consorterie di tipo para-mafioso,
che si appropriano delle istituzioni per farne strame e per spartirsi il bottino. Tutti i nodi della spesa pubblica parassitaria e fuori controllo, del residuo fiscale
che dissangua le regioni più produttive, del debito pubblico ormai ingestibile, dei cronici deficit di bilancio, della rapina fiscale ai danni delle aree più dinamiche,
depredate senza limiti da una famelica e elefantiaca struttura politico-burocratica, del crollo economico e civile del Mezzogiorno - dominato da diffusi tentacoli
delinquenziali (ormai dilaganti anche nel Settentrione) e superato ormai dal reddito pro-capite di molti Paesi dell’ex blocco orientale - non hanno fatto che ingigantirsi
e diventare sempre più difficili da sciogliere, in uno Stato ormai irriformabile. Nodi enormi, accompagnati dalla diffusa e tragicomica convinzione che lo Stato possa
risolvere qualsiasi problema, spendere e indebitarsi sempre di più, scaricando i costi (non percepiti) sulle famiglie di una sola parte dello Stato territoriale e
soprattutto sulle generazioni future, ormai derubate di qualsivoglia prospettiva.
La teoria e l’analisi di Gianfranco Miglio acquisiscono di fronte a tutto questo un’attualità assoluta, un’urgenza estrema di riesame e di approfondimento, tenendo conto
anche delle sue implicazioni pratiche, a partire dalla sempre più necessaria e elementare “protesta contro ordinamento”, che proprio il suo Maestro, Alessandro Passerin
d’Éntréves, aveva definito «L’altra faccia della medaglia dell’obbligazione politica». Ossia il diritto di ribellarsi a un ordine iniquo, imposto dal potere politico e
dal suo abuso, mediante l’uso illegittimo delle risorse pubbliche, la dilatazione delle spese per rafforzare quello stesso potere, in una reiterata violazione dei
principi basilari della giustizia.
Come si può constatare facilmente - perché uno dei suoi maggiori pregi è sempre stata la chiarezza adamantina del suo pensiero e per conseguenza della sua scrittura - i
testi dei suoi studi e interventi sembrano averlo proiettato ben al di là dell’epoca nel quale è vissuto, poiché la sua capacità di comprensione di problemi-chiave e
di previsione aveva dell’incredibile. Non è un caso che dai suoi scritti continui ad affiorare una freschezza incomparabile e che, a differenza di quanto accade nelle
burocratizzate accademie, il riferimento a molte sue intuizioni sia inevitabile nel campo dello studio dello Stato moderno, del Federalismo, condotto da studiosi liberi
da quelle frenanti pastoie di marca più o meno statale. Non è un caso che i suoi scritti continuino a fluire in un vero e proprio “fiume carsico” rispetto alla “cultura”
ufficiale e ai suoi imprimatur.
Infatti l’opera di Gianfranco Miglio è sempre più attuale, nonostante le posizioni e le idee
mainstream prevalenti, ufficiali (ma totalmente digiune di teoria federale),
volte a edulcorarlo, a spaccarne la teoria in due tronconi fra loro incompatibili, a minimizzare quando non persino a ironizzare sul suo apporto alla teoria federale
(in realtà di notevole peso e profondamente radicato nelle scienze sociali e politiche) e la portata delle elaborazioni sulla riforma federale. Gli ultimi dieci anni
di vita e di studi vengono additati come contraddittori rispetto al suo percorso precedente. Eppure, non vi era stata anche nell’opera del proto-scienziato della
politica Machiavelli un tentativo di porre le basi di una riforma radicale per affrontare il mondo in rapida trasformazione del suo tempo? Non si tratta forse di
attività scientifica indicare i rimedi adottabili per evitare gravi degenerazioni? La realtà è che la sua teoria neofederale è l’apice di tutti i temi scomodi dei
quali Miglio si è occupato in vita, spesso urtanti o persino terrorizzanti per i detentori del potere e i loro favoriti, dato che ne minacciano le ideologie che
legittimano prebende e privilegi, così come gli orticelli accademici, le rassicuranti discipline formalizzate e ben compartimentate, sempre più dominate da rigide
strutture gerarchiche.
In particolare, la sua teoria neofederale viene minimizzata - in perfetta dipendenza, consapevole o meno, da pregiudizi ideologici di marca giacobina (che sono alla
base di questo stesso Stato unitario), senza considerare che quella teoria è convergente non solo con quella più avanzata a livello mondiale (ed è all’estero parte
integrante di molta Scienza Politica), ma anche con altre discipline delle Scienze umane (ad esempio l’etologia – si pensi alle messe in guardia di Konrad Lorenz e
di Irenäus Eibl-Eibesfeldt sui pericoli della concentrazione del potere e sulla conseguente necessità di adottare strutture federali ! – ma anche la cibernetica, la
psicologia, la teoria delle reti, ecc.) e parallelamente a quelle vi trova fondamento e ragione. Inoltre, non si tiene conto del fatto che quella teoria non derivava
da posizioni arbitrarie, ma da una profonda analisi della degenerazione dello Stato moderno, alla quale Miglio ha dedicato decenni di studio. Essa derivava inoltre
dall’analisi scientifica del generale e dilagante fallimento del costituzionalismo, dalla difficoltà crescente di imbrigliare la politica con il diritto, dal problema
colossale della concentrazione del potere e della sovranità, sempre più dotato di mezzi irresistibili (cosa già constatata da Carl Schmitt negli ultimi anni di vita),
dal problema classico della tirannide (anch’esso rimosso dagli studi di “Scienza Politica”) e da molte altre premesse teoriche e scientifiche. Non è un caso del resto
se gli esiti di questa teoria siano state proposte di riforma costituzionale in senso federale nelle quali sono stati individuati persino strumenti capaci di migliorare
il sistema elvetico e di correggerne alcuni difetti che lo appesantiscono.
Quello che non si vuole accettare è che per Miglio, in accordo con la teoria politica più avanzata, ogni potere legittimo è sempre e solo un potere delegato, soggetto a
revoca in ogni momento e dipendente dalla volontarietà effettiva di far parte di un’aggregazione politica. Le implicazioni di questo principio per chi detiene il
potere e gode dei vantaggi a questo associati, sono infatti facilmente intuibili. È la fine dei principi gerarchici che hanno dominato la sovranità statuale moderna.
La sua attualità risiede poi nel fatto che incominciano a sorgere seri dubbi sulla legittimità del fatto che una ristretta cerchia di politici che pretendono di incarnare
quella “sovranità”, indiscutibile e eterna, possa decidere per decine di milioni di persone, delle quali conoscono poco o nulla bisogni, aspirazioni e tradizioni.
L’urgenza dell’autogoverno (
self-rule) di comunità di ridotte dimensioni si impone pertanto nelle cose, ma di fronte ad essa si levano scudi (la negazione del diritto
a decidere, senza che si veda la contraddizione con la stessa dottrina democratica) e forme di resistenza inaudite e disposte a tutto, persino a usare la violenza,
pur di evitarne l’affermazione.
Gianfranco Miglio è vivo perché da uomo libero ha saputo - pagando con un lungo ostracismo - infischiarsene del conformismo intellettuale, oggi sempre più dilagante e
non solo nelle accademie. È vivo e sempre più attuale perché la sua presenza attraversa il tempo, avendo ancora molto da dirci.
Alessandro Vitale