PER UNA NUOVA RAPPRESENTANZA
Giuseppe Reguzzoni
La rappresentanza politica delle regioni padane ai tempi del Covid19
Chi insegue gli umori dovrebbe sapere che gli umori cambiano. Quel che non cambia sono i fatti che, per definizione, o sono recepiti o passano inosservati.

Sarà un dato marginale, perché davanti alla perdita di vite umane, il dibattito politico sembra marginale, ma le reazioni isteriche, con tricolori appesi alle finestre, soprattutto a sud della Linea Gotica, e gorgheggi con l’inno di Mameli, esibiti e incoraggiati dalla TV a reti unificate, ci dicono che l’umore sta cambiando e che la vera vincitrice dell’ondata nazionalpatriottica è la romanissima signora Meloni.

Il «Prima gli Italiani» umorale di Salvini si sta riempiendo di un progetto politico e di un’ideologia ben consolidati, che, lui, invece, non aveva: lasciamo tutto così com’è, lasciamo il potere ai ministeri romani.

Persino Repubblica, sempre in prima linea ad accusare di nazionalismo e sovranismo chi nei mesi scorsi diceva «prima gli Italiani», titola la propria rubrica sulla vita quotidiana all’epoca del Covid19: «L’Italia chiamò». Vuol dire che l’onda lunga dell’inconsistente, ma pericoloso, nazionalismo italiano, nato da Garibaldi e Cavour, cullato da Giolitti e Salandra, allattato dal cavalier Benito Mussolini e salvato dall’italietta democristiana ha ormai contagiato anche gran parte della Sinistra.

Si avvicina, ormai, il «partito della nazione», il barcone che, magari in nome dell’emergenza, traghetterà definitivamente lo stivale in Nord Africa, perché se Salvini ha acceso il fuoco del sovranismo, svuotando di contenuti la vecchia Lega e caricandola di consensi nazionali, ora è la vecchia palude fascistoide a raccoglierne i frutti.

Il compito a casa è stato fatto sino in fondo. Le regioni padano-alpine sono prive di rappresentanza autentica e i consensi possono essere traghettati verso Roma. Gli pseudo-rappresentanti della Padania, con casa ai Parioli, da quelle parti stanno benissimo da un paio di decenni.

La crisi, come tutte le crisi, apre gli occhi, almeno a chi vuol vedere. Le leggi speciali (in realtà un palesemente incostituzionale Decreto Ministeriale) non sminuiscono la democrazia che c’era prima, rivelano semplicemente la sua vera natura.

A comandare sono i prefetti e l’apparato governativo centrale, non i sindaci e non i «governatori» delle regioni (titolo retorico senza alcun appiglio giuridico), tant’è che il povero Fontana ha sì tentato di fare in pochi giorni della Fiera di Milano City un ospedale d’urgenza, ma si è visto negare apparecchiature e permessi dal governo centrale, l’unico che conti veramente. Onore a Fontana e alla sua onestà, ma è chiaro a chi vuole vedere che gli tocca remare contro-corrente.

La solidarietà nazionale si è vista sulle autostrade sovraffollate di «rientranti al paesello», sugli ultimi voli e sui treni, ancora a una settimana dal Decreto della Presidenza dei Ministri. Non si sono visti grandi aiuti, ma fiumane di vuota e mielosa retorica: l’invito a esporre il tricolore, il Tiggì Rai (dobbiamo scriverlo così, questa è la dizione giusta) invitare a cantare l’Inno di Mameli dai balconi.

Intanto non ci sono mascherine (ci han detto che erano inutili, ma i medici cinesi arrivati da Wuhan le indossano e, così pure le forze dell’ordine). Non ci sono tamponi, nemmeno per i sintomatici, anzi, Il Fatto Quotidiano scrive che non ci sono «neppure per chi presenta sintomi di polmonite» (però li fanno ai vip della politica e della TV; voi, che siete numeri, chiedetevi perché). Non ci sono respiratori; e già c’è chi è chiamato a decidere chi curare e chi no.

Tutte cose che non possono essere rimpiazzate con la melassa nazionalista e patriottarda. Nei ministeri lo sanno bene, ma puntano sul rimbambimento generale; e ci stanno riuscendo.

Che cosa vuole dire oggi «prima gli Italiani»? vuol dire che se chiedi di poter organizzare un ospedale, ti dicono di no, ma ti consolano cantando l’inno di Mameli?

Mameliggiano, invece di lasciarti fare.

Ma-me-lig-gi-a-re (dizione partenopea) - Ma-me-lig-gia-re (dizione toscana), V.i.: evitare di affrontare il problema mediante zuccherosi richiami nazionalpatriottici e coretti nei condomini di Napoli guidati dalle TV (Lo Stato si fa chiamare patria quando esige il tuo sangue). Traduzione lombarda: cia-pà pei fun-dei (lo Stato loro lo chiamano patria quando esige il nostro sangue).

Mameliggiano, invece di sostenerti (per esempio, lasciando alle regioni del Nord le loro tasse, per salvare sanità ed economia).

A pagare è soprattutto la gente del Nord, lasciata sola da uno Stato che prima spreme, poi ti fa compagnia, promettendo un abbraccio «quando tutto sarà finito»: che se lo tengano, e si tengano anche il disgustoso e pochissimo padano kitch di certe mascherate.

In tutto questo, però, nel disastro è nel vuoto di rappresentanza, le regioni padano-alpine potrebbero cogliere un’occasione, forse l’ultima, per affermare la propria resistenza. Forse è il tempo di far rinascere la rappresentanza che oggi non c’è. Forse è anche il tempo di aprire un conflitto Stato – regioni. Servono gli attributi, ma, se ai vertici mancassero, serve una minoranza decisa e agguerrita. La storia dice che può funzionare, soprattutto in tempi di crisi.

Facciano pure il partito della Nazione: Salvini, Meloni, Piddì e Grillini. Salvini vi conterà sempre meno e/o sarà solo un satellite della destra fascistoide, saldamente in mano ad altri. Qualche suo sgherro avrà grasse prebende parlamentari, ma, pian piano, dovranno cedere il posto all’originale, che è sempre meglio della brutta copia. Nel frattempo, a non sentirci rappresentati siamo in tanti, ormai e anche la parola «Padania» potrebbe tornare a significare qualcosa. Il potere finge di ridere di ciò che teme di più. Dalla tragedia può nascere la catarsi, anche politica. È tempo di svegliarsi: pochi, ma buoni e, soprattutto, determinati.

Giuseppe Reguzzoni



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